Milano
17/11/03 - Rainbow
Sono solo
le 21 e il locale è già pieno zeppo, l'atmosfera che ci accoglie
pare alcolica e fumosa al punto giusto. Sfortunatamente le prime persone
che vediamo non sono certo all'altezza delle aspettive: ci attendono Le
Vibrazioni al gran completo; la faccia da cazzo del cantante è sufficiente
a far venire improvvisamente manie omicide. Siamo sollevati solamente dalla
battuta di un comune mortale che recita più o meno così:
" Ahò, sentiteve 'ste vibrazioniii!", seguita da una sonora scoreggia
artificiale. Gli altri mortali hanno apprezzato, Le Vibrazioni hanno dato
l'impressione di non accorgersi di nulla...chissà come mai?
L'altro
ìvipî (!) da segnalare (la sporca faccia dell'essere cronista) è
il "Nongio", immerso nella sua ridicola posa ingobbita e circondato da
piccoli nerds della sua taglia.
Ma veniamo
al dunque.
Ci attendono
i Kings Of Leon, gruppo americano all'esordio col disco "Youth & Young
Manhood", preceduti da una cantautrice di spalla chiamata Regina Spektor.
Quest'ultima
sale sul palco verso le 21,45 servendosi di un piano, una bacchetta da
batteria (che schianta con foga su una superficie durissima producendo
un suono decisamente secco) e niente altro che la sua voce. Le canzoni
filano via, tra echi alla Tori Amos, acuti degni della Cat Power più
intimista e un tocco di Ani Di Franco, quando si mette a sputar fuori parole
ad una velocità impressionante. Restano nella memoria il suo sincero
e condiviso "Fuck off" diretto ad un astante ben poco cortese e le melodiose
ninnananne flebilmente ruvide e scarne.
Qualche
momento di pausa, una breve perlustrazione del locale e subito gli headliner
della serata sono pronti a maltrattare i loro strumenti. In formazione
i fratelli (tre) e cugini (uno, dei tre) Followill si presentano in maniera
canonica: chitarra e voce per Caleb, basso affidato a Jared, batteria a
Nathan e la chitarra solista imbracciata da Matthew. L'età media
va dai diciassette ai diciannove anni. Sono, e sembrano, proprio dei ragazzini
e si somigliano in maniera imbarazzante.
L'esibizione
è subito improntata all'insegna dell'energia e l'atmosfera in cui
siamo imprigionati è calda, pastosa, líimpressione è che
i tizi sappiamo il fatto loro. I primi pezzi, tra cui registriamo una violentissima
versione di Red Morning Light, sono insieme incendiari e vagamente aciduli
(grazie all'uso spizzicato della seconda chitarra e agli assoli fuorvianti
di Caleb), il pubblico risponde benissimo alle scosse spirituali suscitate
iniziando a ballare e ondeggiare e dimenarsi allegramente. Sembra che tutti
siano trasportati da sentimenti contrastanti, il trovarsi ad un concerto,
ascoltare una band all'esordio, realizzare di essere nell'anno 2003 e sentirsi
invece in un altro luogo, in un'altra epoca, ìcullatiî da questi suoni
grezzi, duri e puri, ma non eccessivamente. Questo è il modo che
il rock'n'roll (più classico, si intende) usa per stupire ancora
innumerevoli volte coloro che lo hanno dato per morto già qualche
decennio or sono.
Sentiamo
dentro questi Kings Of Leon la rabbia originaria degli MC5, líattitudine
della Chocolate Watchband, il classicismo dei Velvet Undeground più
umani, e anche un pizzico di quegli Strokes che ci avevano stupito (ma
poi, nel mio caso, annoiato) nel 2001.
L'abbigliamento
dei musicisti è spudoratamente sixties (forse troppo), e Caleb assume
al passare del tempo un atteggiamento sempre più tarantolato, continuando
a toccarsi i capelli, aggiustarsi la giacca e cercare spazio all'interno
del piccolo palco offerto dal Rainbow, continuando a sferragliare sulle
corde della sua Gibson, sentendosi un piccolo Jim Morrison in astinenza.
La voce, che in certi momenti porta alla mente il Jonathan Richman più
scazzato, ogni tanto prende quella vena satanica che, sia sul disco che
stasera, possiamo ritrovare nella spensierata ballata nevrotica di Joe's
Head e nell'incedere pulsante della stupeda Happy Alone.
Il rammarico
della serata è stata la durata limitata del concerto, anche se c'era
da attenderselo poiché più di quei 50 minuti stirati proprio
non potevano fare, con un solo disco alle spalle. Il tempo è comunque
bastato loro per dimostrare come la loro dimensione live sia molto più
attraente e interessante che quella di studio, con più innesti di
chitarra, maggiore libertà di azione che riesce a dare una marcia
in più ad una formula altrimenti troppo logora e usurata come quella
da loro adottata. Gruppo da vedere insomma, che forse non avrà lunga
vita nel panorama cannibale del rock, ma che figura sicuramente tra i più
chiacchierati e coccolati di questa fine 2003. |